lunedì 14 aprile 2014

C'era una volta...seconda parte

Del ritorno a casa della famiglia, e della mia "prima volta", non conservo alcun ricordo, né personale (avevo solo sei mesi) né di altri.
Per quanto mi  riguarda penso che in quel periodo il mio interesse fosse concentrato su una cosa sola: il seno di mia madre,bianco, morbido e soprattutto sempre disponibile.




Mio padre amava i quadri e in casa ce n'erano parecchi appesi alle pareti, tra gli altri il ritratto a mezzo busto di una dama che metteva in bella mostra un ampio décolleté.


La mamma raccontava che ogni volta che guardavo quel quadro, invariabilmente pronunciavo la parola "pappa".
Altro che sindrome di Stendhal!!
A parte una forma acuta di morbillo  che a due anni stava per portarmi via, è probabile che abbia trascorso la mia primissima infanzia sommersa di coccole e di attenzioni da parte di tutta la famiglia.





I ricordi più lontani risalgono, credo, al '48, quando avevo tre anni e mezzo, quattro, ma si trattava di immagini, suoni, sensazioni non organizzate : la ricerca in giardino di un fantomatico cestino pieno di uova di cioccolato lasciato sotto un cespuglio da un'altrettanto fantomatica lepre (come voleva farmi credere il fidanzato di mia sorella Alma) ; il cuscino di raso con gli anelli per gli sposi che dovevo portare all'altare come damigella il giorno delle nozze ; l'odore della camomilla con cui mia madre mi curava il mal di pancia ..... cose così.
Intanto con il passare del tempo imparavo giorno per giorno a costruire il mio porto sicuro all'interno di quel guscio, di quella casa.
Dalla familiarità delle stanze in cui si svolgeva la nostra vita quotidiana veniva un messaggio di certezza, di stabilità, di appartenenza.



E poi c'erano altri spazi che sembravano fatti apposta per suscitare curiosità, stimolare la fantasia, sviluppare la creatività, soddisfare la necessità di gioco propria dell'infanzia.
Nel seminterrato il vecchio rifugio contro i bombardamenti era tornato ad essere una normale cantina per conservare il vino e  l'accesso al tunnel per le uscite d'emergenza era stato murato, tuttavia dallo sbocco sul giardino si poteva ancora sbirciare dentro quel buco nero e qualche brivido correva lungo la schiena....
La cosa più interessante del seminterrato era però la "camera oscura", naturalmente off limits. Mio padre, che era appassionato di fotografia e non si accontentava di perseguitarci con gli scatti della sua Leika, si era costruito un vero e proprio laboratorio  dove  sviluppare foto, fare ingrandimenti, ritocchi, esperimenti vari. L'accesso era consentito solo in sua presenza : c'erano bacinelle di smalto bianco profilate di blu, boccetti di acidi e reagenti,pellicole, diapositive, tutto disposto ordinatamente sugli scaffali, ma la vera magia iniziava quando mio padre immergeva un foglio bianco nella bacinella. La stanza era completamente al buio ad eccezione di una fioca luce azzurrina che proveniva da una lampada speciale.Papà iniziava a contare sottovoce 101,102,103....e sul foglio di carta apparivano ombre indefinite che piano piano diventavano immagini riconoscibili. Ancora oggi se devo misurare un tempo breve senza orologio o contaminuti, dico anch'io sottovoce 101,102,103..., perchè mio padre mi aveva spiegato che l'inserimento del 100 serviva a calcolare correttamente la lunghezza dei secondi.
Anche quello che veniva impropriamente definito solaio era uno spazio dove fare piacevoli incursioni. La sua superficie era uguale a quella dei piani sottostanti ma i soffitti erano bassi e spioventi. C'era una camera per gli ospiti con i letti gemelli vestiti di crétonne a fiori e uno stanzone di stoccaggio come in tutti i solai che si rispettano : c'era il cassettone per le trapunte con il doveroso effluvio di naftalina, c'era la collezione delle Domeniche del Corriere rilegate in grossi volumi e quella del Corriere dei Piccoli con le avventure del Signor Bonaventura... ricco ormai da far paura..., c'era il "saccodellepezze" dove finivano i vecchi ritagli di stoffa che potevano diventare utili per il guardaroba delle bambole. In autunno quando i cachi erano quasi maturi, venivano messi nei cesti e issati con delle corde fino al solaio dove venivano stesi su assi di legno per completare la maturazione.
Nella bella stagione il giardino diventava il posto favorito per i giochi, ma di questo vi racconterò nella prossima puntata.




Se qualcuno mi chiedeva "Dove abiti?" rispondevo "Sul viale", senza aggiungere altro, un po' perchè  in paese di viali ce n'era uno solo, ma soprattutto perchè per la gente del posto bastava il nome comune per identificare una realtà che non era fatta solo di un luogo di transito, ma comprendeva anche i giardini e le case che vi si affacciavano e le persone che le abitavano.
Fino alla seconda metà degli anni '50 quando fu costruita la strada provinciale che collega Bergamo e Lecco, il viale non portava in realtà da nessuna parte: niente asfalto, niente traffico, solo grandi alberi, forse ippocastani o tigli, che d'estate davano ombra e frescura, tanto che sotto le loro chiome si poteva giocare indisturbati ai quattro cantoni senza alcun pericolo.


Le famiglie si conoscevano da anni e ,se gli adulti si frequentavano con misura, i ragazzini del quartiere condividevano i giochi dentro e fuori i giardini, soprattutto in estate.
Sulla strada a fondo chiuso che correva parallela al viale sul lato posteriore della casa si tenevano  sfide cruente a battaglia viva o a palla prigioniera. A me non piacevano molto questi giochi perchè la presenza dei "maschietti" li rendeva a volte un po' violenti; una pallonata in pieno stomaco poteva bloccare la respirazione per qualche secondo  procurando un'esperienza niente affatto divertente.
Dentro il giardino invece i giochi erano più misurati : Un due tre, Stella! oppure Regina,reginella quanti passi devo fare?..... ve li ricordate?




Tutto intorno alla casa correva un largo marciapiedi in cemento sul quale era facile imparare ad andare in bicicletta, bicicletta che era rigorosamente "ereditata". Essendo la più piccola in famiglia credo di non aver mai posseduto una bici nuova, ma la cosa non mi disturbava affatto.
A volte nella parte più ampia del marciapiedi, con l'aiuto di un coccio di mattone o di una vaso rotto di terracotta, si tracciavano le caselle per giocare a Mondo, e via a saltellare tra lunedì, martedi , mercoledi, riposare nella casa del giovedi e riprendere il giro...
Sulla scala d'ingresso alla casa invece, quella che mio padre immortalava sempre come sfondo in ogni nostra fotografia,si tenevano le prove di coraggio : saltare dal secondo e dal terzo gradino era divertente; farlo dal quarto comportava un attimo di esitazione; il salto dal quinto era riservato agli audaci o agli incoscenti.



Quando faceva troppo caldo per giocare all'aperto ci si rifugiava nel garage che mio padre aveva fatto costruire in fondo al giardino. Era un edificio basso, lungo e ampio, con la forma della lettera T. Il corpo centrale serviva per ospitare l'auto;  in fondo, su ciascun lato, si aprivano due vani di forma quadrata : a sinistra la legnaia, dove si tenevano i ciocchi di legna per la stufa della cucina, a destra la lavanderia.
Immagino che oggi molti non sappiano quanto fosse pesante allora occuparsi del bucato. In paese c'era una lavatoio pubblico coperto, con tante vasche e acqua corrente, ovviamente fredda, ma alcune donne  scendevano ancora al fiume per lavare i panni, usando la "bradèla", come si chiamava in dialetto, una sorta di inginocchiatoio di legno con una superficie inclinata per battere e strizzare i tessuti.
Della lavatrice non c'era traccia nemmeno nei sogni più fantasiosi....
Noi eravamo tra i fortunati che avevano una lavanderia e una lavandaia, la Bepa, che aveva le mani gonfie e arrossate a furia di tenerle nell'acqua e la schiena piegata di 30° a furia di star china. Nella lavanderia c'erano le vasche di graniglia e una caldaia a legna in cemento per riscaldare l'acqua dentro una grande tinozza.
D'estate, quando la biancheria era lavata - lenzuola, tovaglie,tovaglioli, ecc.erano rigorosamente bianchi -  il bucato veniva steso ad asciugare sul prato perchè la luce del sole ne accentuasse il candore.
Ritornando al garage, quando non c'era l'auto parcheggiata, lo spazio era tutto a nostra disposizione ed era il posto ideale per giocare a mamme o a signore : bastava apparecchiare un tavolino, mettere in una boccetta di inchiostro ormai vuota e ripulita qualche fiore del prato e far merenda con pane, burro e marmellata di ciliege o con qualche biscotto preparato dalla mamma.
Ricordo che un giorno, proprio mentre ci preparavamo al rito della merenda, scoppiò un violento temporale. Mia madre, pensandoci spaventate, mandò mia sorella Raf con impermeabile e ombrello a prelevarci una ad una, dalla più piccola (io) alla più grande (mia sorella Annamì).



Quando finalmente le nubi si diradarono, tornammo alla nostra merenda per scoprire che qualcuno (???) , nell'attesa di essere messo in salvo, per vincere la paura si era spazzolato tutti i biscotti...
Il garage si prestava anche ad altre attività. La disposizione degli spazi consentiva di allestire piccole rappresentazioni; gli attori potevano entrare e uscire di scena dalla lavanderia o dalla legnaia come in un vero palcoscenico.
Il bastone per rimestare i panni nella caldaia diventava per "lui" un focoso destriero :
Dove vai , dove vai bella fantina?
Dove vai, dove vai bella fantina?
cantava.
E "lei", reggendo due secchi vuoti con un bastone appoggiato alla spalla, rispondeva:
Vado a prender l'acqua per bere in cucina
Vado a prender l'acqua  da bere in cucina
Il duetto continuava:
Mi daresti, mi daresti un bicchier d'acqua ?
Mi daresti , mi daresti un bicchier d'acqua?
Non ho una tazza, neppure un bicchiere per dar da bere a un cavaliere.
Non ho una tazza, neppure un bicchiere per dar da bere a un cavaliere.

Non conoscendo l'origine di questa canzone , ho fatto una ricerca veloce in rete e ho scoperto che si tratta di un antico canto popolare, con molte strofe, conosciuto in diverse regioni d'Italia , ma nessuno mi ha spiegato come quel canto sia arrivato nel garage di casa mia...
Per ultimo voglio ricordare gli amici più cari, più devoti, più affettuosi, più pazienti, più disinteressati, più sinceri che possano accompagnare un bambino/a nell'infanzia :

Ormai non c'è più traccia dell'assioma secondo cui "Non ci sono più le mezze stagioni" che per anni ci ha consentito di colmare gli imbarazzanti silenzi di ogni conversazione stentata. Oggi, di fronte ai continui e repentini mutamenti climatici sono in molti a sostenere che non è una questione di misura : le stagioni non esistono più, intere o mezze che siano.
Per contro c'è il fronte di coloro che ribattono che le cose vanno così da che mondo è mondo, semplicemente siamo troppo sbadati per ricordare.
La discussione è accademica e non troverà mai un punto d'incontro; tuttavia, riflettendo sul tema e per quel che mi riguarda, osservo che se qualcuno mi chiedesse com'era la primavera nel '78, o l'inverno del '96, o anche solo se l'estate di un paio d'anni fa è stata più o meno afosa, non saprei assolutamente cosa rispondere, come se gli ultimi 50 anni fossero scivolati via, atmosfericamente parlando, in maniera del tutto anonima.
Al contrario, e  chissà per quale inconscio processo selettivo della mente, le stagioni dell'infanzia sono rimaste nel ricordo nitide e dettagliate, non solo per le caratteristiche climatiche pressochè costanti, ma anche per la loro stretta e invariabile connessione con fatti e ritmi della vita quotidiana.



La primavera iniziava con il fiorire della sassifraga, detta anche fiore di S.Giuseppe, e quindi a ridosso dell'equinozio di marzo.
Al risveglio del giardino si accompagnava il risveglio della casa : ogni cosa doveva essere pulita e lustrata. La passatoia che ricopriva le scale di granito rosso che portavano ai piani superiori veniva liberata dalle bacchette di ottone che la tenevano ancorata ai gradini e portata all'aperto per essere battuta a dovere. Nel frattempo mia sorella Annamì ed io ci divertivamo , partendo dal gradino più alto, a lasciarci scivolare giù per le tre rampe di scale nude, fredde e lucide, cosa che comportava a fine corsa un eccitante formicolio del fondoschiena.
Niente veniva trascurato : garage, cantina, la carta sul fondo dei cassetti,tutto veniva passato al setaccio ; perfino il campanello di ottone e la targa con la scritta Villa Anna all'ingresso di casa venivano lustrati con il Sidol fino a diventare splendenti come  l'oro.
Subito dopo arrivava la Pasqua con i suoi riti e i suoi misteri. Ricordo in particolare l'usanza del bacio al Crocifisso nella giornata del sabato : la chiesa era spoglia e silenziosa e ciò rendeva ancor più inquietante quel Cristo sdraiato e inchiodato alla croce, così freddo al contatto delle labbra.
Ma poi seguiva la festa e per l'occasione c'era ad aspettarmi un paio di scarpe nuove.
Se le bici e gli abiti potevano passare di mano, per le scarpe le cose andavano diversamente, per quelle non poteva esserci approssimazione.
Erano bianche, scollate, con la punta arrotondata e un cinturino che le chiudeva alla caviglia. Si chiamavano scarpe alla bébé ed erano esattamente come quelle che indossano le bimbe di Mariapia. Pare che queste scarpe stile anni 40 siano oggi considerate cool, e non solo per le bambine, ma si sa , la moda ha i suoi corsi e ricorsi....
A maggio le giornate si allungavano, il buio arrivava più tardi e così si poteva stare un poco all'aperto anche dopo cena. In tutti i giardini fiorivano le rose e il loro profumo si spandeva nell'aria , specialmente la sera, quando sul viale passavano frotte di ragazze che si recavano in chiesa per la recita del rosario e le prime lucciole ammiccavano dalla siepe per poi nascodersi tra i rami.



La fontana oggi

Anche l'estate si mostrava rispettosa del calendario e si presentava puntuale al solstizio di giugno quando iniziavano i preparativi per la festa di S.Pietro, il patrono del paese.
Per l'occasione si riordinava il giardino e si montava davanti all'ingresso principale la tenda da sole a rigoni bianchi e verdi. Anche la fontana veniva ripulita dalla melma che si era formata sul fondo durante l'inverno e l'acqua riprendeva a zampillare dando una gradevole sensazione di freschezza.
In casa, nella tarda mattinata, le tapparelle venivano un poco abbassate per ottenere una rilassante penombra , mentre fuori le cicale frinivano a più non posso sotto il sole di mezzogiorno. Del pranzo, ricordo solo che iniziava con un antipasto di prosciutto crudo e melone, una prelibatezza che a quei tempi si riservava solo alle ricorrenze speciali ; per il resto , la mia attenzione era tutta rivolta alla fiera che si teneva nella piazza principale del paese e richiamava gente anche dai paesi vicini. C'erano le giostre per gli adulti e quelle per i bambini, i baracconi con il tiro a segno e i pesciolini rossi nelle bocce di vetro, le bancarelle con lo zucchero filato, il croccante  e le frittelle e soprattutto tanto rumore, tanta musica a tutto volume e tanta eccitazione per noi bambini.
Quando la carovana dei giostrai lasciava il paese, era ormai tempo di partire per il mare.


Per la vacanza al mare i miei genitori affittavano un appartamentino per qualche settimana sulla riviera ligure. Le mie sorelle ed io non vedevamo l'ora che arrivasse il giorno della partenza, sia pure con motivazioni diverse vista la differenza d'età. Per la mamma invece si trattava di un vero tour de force : doveva riempire un baule intero con lenzuola, tovaglie, teli di spugna, abiti ed effetti personali e tante altre cose che ci sarebbero state utili durante la vacanza. Il baule poi veniva spedito con il treno mentre noi viaggiavamo un po' pigiati sull'auto di mio padre. Il viaggio era lungo - non c'erano autostrade - e il percorso tortuoso. Sentivo i grandi parlare di Passo del Turchino, Passo dei Giovi, ma la mia sola preoccupazione era tenere a bada lo stomaco, che non gradiva tutti quei tornanti, fino al momento in cui all'orizzonte appariva una sottile striscia azzurra scintillante che provava inequivocabilmente che non lontano da lì c'era il mare.
Quella parentesi marinara era piena di esperienze nuove e allo stesso tempo di esperienze ritrovate : acqua salmastra , tiepida e trasparente, giochi con la sabbia, collane di conchiglie e soprattutto bomboloni caldi, con il cuore di crema o marmellata, che lasciavano baffi di zucchero da cancellare con la punta della lingua, lentamente, molto lentamente, per godere fino all'ultimo granello.
Al rientro dal mare l'estate era ormai matura e , benchè ci fosse ancora tempo per i giochi all'aperto, bisognava pensare a quei compiti che la maestra aveva assegnato per le vacanze e che per troppo tempo erano rimasti in un cassetto.
Qualcosa cambiava piano piano nell'aria : stava arrivando l'autunno.


Il 1 ottobre ricominciava la scuola e quindi a settembre, con l'arrivo dell'autunno, bisognava attrezzarsi per tempo. In genere la cartella durava per tutto il ciclo elementare, così come l'astuccio di legno con il coperchio scorrevole. Fortunatamente i pastelli si consumavano - rosa, azzurro, giallo e rosso arrivavano alla fine dell'anno ridotti a moncherini - e quindi si poteva contare sull'acquisto di una scatola nuova da 12  o da 24 , marca Giotto, e nessuno aveva da ridire se nero, viola e ciclamino erano ancora praticamente intatti. Anche le penne a cannuccia dovevano essere rimpiazzate,  vittime innocenti di morsi tormentati inflitti in momenti di difficoltà, e ovviamente i pennini e la carta assorbente.
E i quaderni? Ve li ricordate quei tristissimi quaderni con la copertina nera e grinzosa e il bordo profilato di rosso? L'unico appeal che possedevano erano le righe che cambiavano secondo la classe. Per fortuna c'erano i libri, così belli nelle immagini e nei contenuti, sempre più cari nella memoria.
Il cambio di stagione comportava anche un cambio d'abbigliamento : si controllavano soprattutto orli e maniche per decidere gli interventi più appropriati e in ogni caso c'era un provvidenziale grembiule nero che scoraggiava eventuali critiche o lagnanze.
Per l'intimo ci pensava la zia Rosa : sottovesti e mutandine erano il suo pane. La zia Rosa era una sorella di mia madre, rimasta vedova giovanissima con un bambino da crescere. Nel tempo aveva acquisito una certa dimestichezza con il cucito, almeno quanto bastava per provvedere alle necessità di famiglia. A me piaceva osservarla quando stendeva sul tavolo il morbido tessuto di flanella rosa decorato con piccole stelline rosse , vi sovrapponeva il cartamodello e poi zac con le grossi forbici tagliava la stoffa  in maniera perentoria.
Ottobre regalava ancora qualche bella giornata, di quelle che ancora oggi amo di più in assoluto, con l'aria leggermente frizzante , il cielo cobalto e le foglie degli alberi che si colorano di giallo,rosso e arancio, mentre novembre portava  grigie giornate di pioggia e soprattutto la nebbia che cancellava ogni cosa. Eppure non tutto era perduto perchè a novembre si festeggiava il mio compleanno e non era poi così terribile rintanarsi in casa se qualcuno provvedeva per l'occasione a regalarmi qualche librino con le illustrazioni di Mariapia.




L'inverno iniziava un po' in anticipo rispetto alla data del solstizio ma nessuno se ne rammaricava , perchè dicembre era un mese carico di promesse. Il 13 cadeva la festa di S.Lucia, che dalle nostre parti porta i doni ai bambini buoni, e poi poco dopo arrivava il Natale.
Era bello pensare che si potevano desiderare intensamente due o tre cose e qualcuno dal Paradiso provvedeva a caricarle  su un asinello e a lasciarle proprio nel soggiorno della casa giusta, magari anche qualcuna in più. Quando frequentavo la prima elementare un giorno venne a trovarci in classe S.Lucia in persona , con un abito lungo e il volto coperto da un velo; ci portò in dono dei dolcetti di zucchero colorato e subito dopo se ne andò senza pronunciare una parola. Era proprio vero: S.Lucia esisteva e io l'avevo vista.....
I preparativi per il Natale si facevano a cuor leggero perchè , doni a parte, era pur sempre una bella festa. Mentre la mamma preparava il presepe con Maria e Giuseppe chini a contemplare una culla vuota - il Bambinello entrava in scena solo la notte santa - si sceglievano gli addobbi per l'albero di Natale, un abete di medie dimensioni rigorosamente vivo. A scelta ciascuno decorava i rami con delle fragilissime palline di vetro colorato, monete di cioccolato ricoperte di stagnola dorata, aranci , mandarini, candeline di cera infilate in piccoli moccoli dotati di pinze.
Alla vigilia di Natale arrivavano gli zii che si sarebbero tratenuti fino all'Epifania : la zia Angioletta, sorella della mamma, e il marito, lo zio Rino, maresciallo dei Carabinieri. Della zia ricordo in particolare l'odore di naftalina della sua pelliccia che probabilmente usciva dall'armadio solo per quell'occasione, mentre lo zio, un uomo molto mite nonostante la divisa, mi faceva sedere sulle sue ginocchia e mi diceva con il suo forte accento siciliano : Pupabbbella !
A gennaio l'inverno si faceva più rigido e spesso nevicava abbondantemente. Succedeva quasi sempre di notte e al mattino, prima ancora di alzare le tapparelle, si percepivano i suoni ovattati che provenivano dalla strada . Per prima cosa dovevamo dominare le esclamazioni di gioia per non innervosire mio padre a cui toccava  spalare la neve per aprire un varco fino al cancello , ma appena terminava il suo compito si correva in giardino per ammirare i ricami sugli alberi, toccare la neve, misurarne l'altezza lasciandosi cadere a peso morto sulla coltre bianca.
Febbraio era il mese delle frittelle  e del Carnevale ; a scuola si imparava a conoscere le maschere e le città da cui provenivano e a volte si mettevano in scena piccole recite per meglio rappresentarle.
A marzo il ciclo ricominciava e tutto lasciava supporre che niente sarebbe mutato. Invece il tempo passava e pur senza traumi e scossoni ci si accorgeva un giorno che l'infanzia era finita.
Da un po' di tempo a questa parte le persone hanno imparato a fare outing , per raccontare la propria omosessualità celata , i tradimenti fatti al coniuge o altre verità a lungo nascoste, importanti o banali, per beneficiare dell'effetto liberatorio che ne consegue. Io ho raccontato un po' della mia infanzia perchè la considero la mia stagione perfetta  e ho pensato di condividere con altri la gioia e la serenità che mi ha portato. Forse qualcuno , come in un gioco al Noi che..., si è riconosciuto in qualche dettaglio e lo ha rivissuto con piacere. Forse la memoria ha inconsciamente cancellato i momenti tristi , le giornate grigie di quegli anni, comportandosi come il cercatore d'oro che lascia scorrere la sabbia attraverso il setaccio per trattenere solo le pepite. Forse.... ma io quelle pepite le ho messe su uno dei piatti della bilancia e così facendo ho sopportato meglio i carichi pesanti che la vita ha deciso di mettere sull'altro piatto. E' un trucco che funziona, ve lo assicuro, anche nelle piccole cose di ogni giorno.
                                 Sessant'anni dopo



Forse qualcuno si chiederà cosa ne è stato di quella casa e di quel giardino di cui Dindi e Mianna hanno parlato spesso ricordando la felice stagione dell'infanzia. La casa vive più che mai e con il giardino continua ad essere un luogo dove i bambini della quarta generazione perpetuano la tradizione....
Le mie sorelle Alma e Raffaella avevano lasciato la casa rispettivamente nel '48 e nel '53 in occasione del loro matrimonio, ma quando  mia sorella Nicoletta si trovò a dover fare la stessa scelta nel '57, si rese conto che proprio non ce l'avrebbe fatta a staccarsi da lì per seguire il marito sia pure per pochi kilometri. D'altra parte anche i miei genitori temevano di ritrovarsi soli in una casa ormai troppo grande quando in futuro ad una ad una le loro figliole decidessero di costruire i loro nidi altrove.
Detto fatto la soluzione fu trovata : 


Sulla struttura originariamente adibita a garage,legnaia e lavanderia, opportunamente ritoccata , fu costruito un appartamento per gli sposi. Nel giro di pochi anni però , con l'arrivo di 5 figli, si rese necessario un nuovo intervento che diede alla casa l'aspetto che conserva ancora oggi:



Il giardino tra le due case ha continuato ad esercitare nel tempo una grande attrazione per i bambini, non solo per i figli di Nicoletta, che  vivevano lì, ma anche per gli altri nipoti, in particolare per i miei figli che, benchè avessimo un giardino tutto nostro, non vedevano l'ora di andare dai nonni per trascorrere i lunghi pomeriggi d'estate.
Dopo la morte dei miei genitori, la casa fu oggetto di una drastica ristrutturazione per quanto riguarda il suo interno, mentre l'aspetto esterno rimase sostanzialmente  immutato . Dalla razionalizzazione degli spazi interni  furono ricavate due unità abitative che sono tuttora occupate da Luigi e Rosanna, i figli più grandi di Nicoletta, con le rispettive famiglie.






Anche il giardino ha subito qualche modifica, ma gli alberi ad alto fusto sono rimasti, così come la fontana.






Vicino al cancello d'ingresso è stata creata un'aiuola dove sono state collocate le rose che coltivava mia madre. Il ricordo dei nonni è sempre vivo, così come la consapevolezza dell'amore con cui hanno dato origine a questo "progetto" tanti anni fa. Per questo appena è possibile tutte e 5 noi sorelle ci incontriamo in quel giardino :




accompagnate dalle nostre speciali "badanti" Dindi e Rosanna :

Dove un tempo c'era il prato su cui veniva steso il bucato c'è un suggestivo sentiero :

ma le ortensie sono quelle di allora :







e non manca mai un angolo dove i bambini possano divertirsi con un'altalena:




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