lunedì 14 aprile 2014

C'era una volta...prima parte

La casa fu costruita all'inizio degli anni '30, grazie a non pochi sacrifici e all'oculata gestione da parte dei miei genitori delle risorse economiche disponibili.Un prezioso contributo venne anche da una piccola eredità che mia madre aveva ricevuto alla morte dei genitori. Per questo, o forse anche per una consuetudine dell'epoca, mio padre volle darle il suo nome e la chiamò Villa Anna.
Devo dire che mai dedica fu più azzeccata perchè fin dal primo giorno in quella casa mia madre rappresentò al meglio una delle figure più care dei nostri vecchi libri di lettura della scuola elementare: l'angelo del focolare.
So che mio nipote Luigi conserva alcune fotografie della casa in costruzione, ma credo che questa sia la prima scattata a lavori compiuti e immagino con quanto orgoglio i miei genitori l'abbiano guardata :



Ai miei occhi invece appare spoglia perchè ancora priva del suo naturale complemento: il giardino.Non vedo i quattro cedri del Libano che in pochi anni svetteranno fin sopra il tetto, non vedo la siepe di ligustrum lungo la recinzione e non vedo le rose che a maggio riempiranno di profumo il vialetto d'ingresso.



Penso, non lo so per certo perchè ancora non c'ero, che all'interno della casa la vita scorresse serena. La famiglia cresceva. Nel '33 era nata mia sorella Nicoletta e nel '38 mia sorella Annamaria.
Mia madre non amava le visite di cortesia a signore sconosciute, non amava le apparizioni in pubblico né la partecipazione attiva a quei gruppi sociali con cui il regime  tendeva ad inquadrare i cittadini; caso mai preferiva coltivare rapporti di buon vicinato con le famiglie che vivevano accanto, dove le mie sorelle potevano trovare l'amicizia dei coetanei.
Forse quando si profilò lo spettro della guerra, nessuno in famiglia pensò di esserne coinvolto più di tanto : mio padre era troppo "vecchio" per essere richiamato e non c'erano figli maschi da sacrificare alla patria, tuttavia l'angoscia cresceva  perchè si temeva che la nostra casa potesse finire nell'occhio del ciclone.
A un paio di chilometri a nord c'era infatti un vecchio campo d'aviazione, forse usato un tempo dalla Caproni, una delle principali aziende aeronautiche italiane, ora utilizzato dall'aviazione tedesca.



A sud, a pochi chilometri in direzione di Milano, c'era la Dalmine, un'industria siderurgica che produceva materiale bellico anche per i tedeschi. Soprattutto , a poche centinaia di metri dalla casa, c'era il ponte, quel maledettissimo ponte ferroviario di grande importanza strategica su cui avevano puntato gli occhi i bombardieri degli Alleati.



Il pericolo dei bombardamenti si faceva sempre più concreto. Mio padre aveva fatto allestire nel seminterrato di casa una sorta di rifugio antiaereo, con dei pali a sostegno del soffitto e scorte di cibo e acqua, e aveva fatto scavare un cunicolo che da lì sbucava in giardino, per garantire il ricambio dell'aria ed evitare il pericolo di rimanere intrappolati sotto le macerie.
Tutto ciò non bastava a garantire l'incolumità della famiglia e così mio padre decise che era arrivato il momento di allontanarsi, di sfollare come si diceva allora. Si accordò con una famiglia di contadini che viveva in un paesino all'imbocco della Valle Imagna perchè ci accogliessero nella loro casa e fu lì che trasferì le sue donne.






La cascina si trovava a margine della strada che proseguiva a mezza costa verso le montagne, lontana dal centro abitato.
Un ampio terrazzo si affacciava sul fondovalle e sulla stalla da cui a tratti proveniva l'odore del letame o il profumo del fieno. Al piano terreno della casa c'era una stanza  dominata dalla presenza di un grande camino, annerito dalla fuligine, con al centro, appeso a un gancio, il paiolo di rame per la polenta.

I proprietari, contadini da generazioni, erano gente semplice e schiva che tuttavia, pur nella ruvidezza dei modi tipica del carattere bergamasco, sapevano compiere piccoli gesti che testimoniavano un'umanità inespressa a parole.

Tutti i miei ricordi, sia del luogo sia delle persone, relativi a questo periodo, sono "postumi", nati cioè durante le visite fatte dopo la fine della guerra alla famiglia che ci aveva ospitato o dai racconti dettagliati di chi li aveva vissuti.
Le sorelline più piccole si erano adattate abbastanza facilmente a quella vita di campagna, non fosse stato per quell'incubo ricorrente : incominciava come il ronzio di un grosso insetto e aumentava progressivamente di intensità fintanto che, dal crinale delle montagne più vicine, gli aerei spuntavano in formazione serrata per scendere verso la pianura a quote così basse che si potevano scorgere i volti tesi dei piloti chiusi nei loro abitacoli.
Nessuno sapeva dove fossero diretti o quale fosse la loro missione, ma quel breve passaggio lasciava nell'aria un'angoscia palpabile. Mia sorella Annamì racconta che ancora oggi nei giorni con cielo sereno avverte un senso di inquietudine alla bocca dello stomaco che scompare quando il cielo è coperto.
Mio padre quasi ogni giorno veniva in bicicletta a trovare la famiglia, a volte portando sul portapacchi una valigia di cartone piena di patate, e riferiva di quanto stava  accadendo al paese.
Il 1944 fu un anno tremendo anche per la popolazione civile. A luglio le truppe alleate avevano bombardato lo stabilimento della Dalmine causando 274 morti e più di 800 feriti e , ad ottobre dello stesso anno, 24 aerei bombardarono a tappeto la zona della stazione e del ponte poco lontano dalla nostra casa.
La Casa di Riposo per gli anziani, la Cooperativa alimentare e tante abitazioni furono completamente distrutte, mentre la stazione e il ponte, veri obiettivi dell'incursione,furono solo danneggiati.



Fortunatamente la nostra casa era al di là del fiume  e solo i vetri vennero frantumati dallo spostamento d'aria.
In mezzo a tanta sofferenza la gravidanza di mia madre portava una nota di speranza per il futuro.
Mia sorella Alma, che all'epoca aveva 18 anni ed era ormai donna, ricorda quell'abitino di seta a fiorellini che mia madre aveva incominciato ad indossare in estate al manifestarsi dei primi segni evidenti del suo stato e che con il passare delle settimane e dei mesi diventava sempre più stretto, sempre più corto, mentre mia sorella Nicoletta, a 11 anni, aveva la testa piena di interrogativi come succede a quell'età. Non sapendo come soddisfare la sua curiosità e avendo isolato nei discorsi dei grandi la parola "gravida", pensò di ricorrere in gran segreto al vocabolario della lingua italiana. Trovò : gravido , agg.masch. = colmo, pieno , ad esempio "panino gravido di prosciutto". Tutti suoi punti di domanda restarono fermamente al loro posto......
Talvolta ci chiediamo come certe forma di vita possano svilupparsi in condizioni estreme; senza citare casi eccezionali capita spesso di vedere un seme germogliare nelle crepe di un muro o un fiore bucare l'asfalto .

Tutto ciò accade semplicemente perchè la vita è vita, e niente può fermare per sempre l'energia di cui si nutre.
Allo stesso modo la guerra, che semina lutti e distruzione e avvelena lo spirito e la mente, non può opporsi alla forza dei buoni sentimenti che germogliano spontaneamente nel cuore degli uomini e delle donne di buona volontà.
Nel raccontare quegli anni difficili credo sia giusto ricordare anche ciò che la guerra non ha potuto contaminare.
Nel '43 la presenza militare tedesca nei territori del nord Italia si faceva sempre più pressante. Nel paese in cui vivevano i miei genitori si era insediato un reparto dell'aviazione tedesca, composto da piloti e personale ausiliario, e in assenza di strutture adeguate per alloggiarli, le autorità requisivano le abitazioni private.
Così un giorno un ufficiale si presentò ai miei genitori e dopo aver ispezionato accuratamente la casa, decise di requisire al primo piano la stanza in cui le mie sorelle più grandi dormivano e studiavano, la più luminosa in assoluto perchè esposta a sud-est.
La stanza doveva ospitare una giovane ausiliaria tedesca di nome Edith.



Quando Edith si presentò, comprese immediatamente quanto quella sistemazione fosse inopportuna, dal momento che la sua presenza in quella parte della casa avrebbe violato l'intimità della famiglia e privato due ragazze di un luogo a loro particolarmente caro.
Preferì dunque sistemarsi alla meglio nella sala da pranzo a pianterreno, un ambiente poco usato ed esposto a nord, da cui si poteva accedere ad una piccola veranda, rallegrata da vetrate colorate in stile liberty e arredata con un semplice salotto di vimini, dove Edith avrebbe potuto ricevere le visite dei suoi amici.
Potete immaginare quanto fosse comunque difficile gestire una situazione del genere : per alcuni i tedeschi erano nostri alleati nell'Asse, per altri erano già il nemico. In quel clima anche ai comportamenti più innocenti e spontanei poteva essere attribuito un significato politico con conseguenti giudizi sommari e categorici, spesso letali.
Edith, che aveva perso entrambi i genitori sotto un bombardamento, era una ragazza gentile ed educata, sempre attenta a non creare disturbo e anche i suoi ospiti erano ragazzoni semplici il cui desiderio principale era probabilmente quello di ritornare al più presto in patria dalla famiglia.
Fu cosi che , grazie anche  alla presenza delle mie sorelline più piccole e alla loro innocente spontaneità, si stabilì tra la mia famiglia e quei giovani un legame particolare che superava ogni pregiudizio, ogni barriera artificiale.
Il pericolo dei bombardamenti indusse comunque i miei genitori a lasciare la casa per un luogo più sicuro, ma mi raccontano che quando arrivò la notizia della mia nascita, quei ragazzi si procurarono delle biciclette e vennero pedalando a darmi il benvenuto.


Anche dopo la fine della guerra e fino alla sua morte avvenuta pochi anni fa,Edith restò sempre in contatto epistolare con la mia famiglia, tramite mia sorella Raffaella che andò più volte a trovarla nella sua casa in Germania dove fu accolta con grande calore anche dal marito, dai figli e dalla cerchia dei parenti.

Se la storia di questa amicizia speciale nata dalla guerra può essere conservata e rivissuta tra i ricordi lieti, altre circostanze invece furono vissute con grande tensione.
Quando ormai le sorti del conflitto sembravano segnate e le vecchie alleanze lasciavano il posto alle nuove, nei boschi alle spalle della cascina incominciarono a nascondersi soldati francesi e inglesi che, già prigionieri dei tedeschi, erano riusciti in qualche modo ad allontanarsi dal campo di prigionia. Erano per lo più ragazzi impauriti, senza cibo né indumenti adatti per ripararsi dal freddo dell'inverno che avanzava. A volte la fame li spingeva allo scoperto. Bussavano furtivamente alla porta  e a gesti chiedevano cibo. Alcuni erano malati e portavano sul corpo i segni delle recenti privazioni.
Soccorrerli significava mettere in pericolo la propria vita, oltre che la loro, perchè purtroppo, anche in quella piccola comunità contadina, bastava una piccola bega irrisolta o un vecchio torto subito per indurre alla delazione persone che in tempo di pace non avrebbero fatto male a una mosca. Nello stesso tempo non era possibile fingere di non sapere, di non vedere la loro sofferenza. Alle donne in particolare non importava stabilire se fossero eroi o codardi ; nei loro volti riconoscevano i tratti dei fratelli, dei mariti, dei figli che non erano più tornati dal fronte o che ancora combattevano Dio sa dove quell'inutile guerra.
E così, vincendo ogni paura, incominciarono a lasciare la sera fuori dall'uscio cesti di pane e formaggio che al mattino ritrovavano vuoti, a stendere lenzuola alle finestre per segnalare la presenza di ronde, a nascondere in mezzo al fieno i malati più bisognosi di cure.
Mia sorella Annami canticchia ancora oggi una canzoncina dedicata ad una sua omonima francese, una certa Annemarie, insegnatale da Frédéric, un soldato francese, forse alsaziano, che purtroppo non si salvò dalla polmonite. La cosa curiosa è che le parole della canzone che lei ricorda non hanno alcun senso, sono solo i suoni di una lingua sconosciuta impressi nella mente di una bambina di cinque anni.
Di tutti questi ragazzi non si è saputo più nulla. Conforta il pensiero che almeno qualcuno tra loro sia riuscito a ricongiungersi felicemente con la famiglia.
Nella primavera del '45 la guerra poteva ormai dirsi conclusa e i miei genitori decisero che era arrivato finalmente il momento di TORNARE A CASA.
(la guerra è finita ma la storia continua....)



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